La qualità o la quantità? Suggerimenti per un nuovo inizio della scuola


 di MARCO ORSI.  

In un recente seminario organizzato dall’associazione Senza Zaino, la sociologa Chiara Giaccardi nel suo intervento molto stimolante, ha parlato di nuovo inizio, sconsigliando di utilizzare la parola ripartenza, che rimanderebbe all’idea di tornare a praticare i modelli di vita precedenti la pandemia.  Ecco, ora l’Italia si accinge a spendere le molte risorse previste dal PNRR  messe  a disposizione dall’Europa, ma il rischio in agguato è quello di mantenersi sulla linea  quantitativa della ripartenza, piuttosto che su quella qualitativa del nuovo inizio. Un approccio fondato sulle evidenze è sicuramente di grande aiuto per evitare tali pericoli. 

Prendiamo allora alcuni temi emblematici cominciando con la povertà educativa.  John  Hattie, autorità nel campo della Evidence Based Education, sostiene che da una parte gli insegnanti spesso esprimono la convinzione  che non si possa fare molto per porre rimedio alla povertà, ma in realtà le ricerche dicono il contrario, perché una scuola di qualità  è capace di offrire le migliori opportunità per aiutare gli studenti e non importa quale sia la loro situazione familiare. Infatti in giro per il mondo - secondo il ricercatore neozelandese - ci sono molti insegnanti e scuole che “fanno la differenza” per la vita dei bambini che vivono in contesti meno abbienti. Il mantra da recitare dovrebbe essere il seguente: “ci sono opportunità per ogni alunno che attraversa il cancello della scuola e entra nella mia classe indipendentemente dal suo background.  La povertà e le scarse risorse familiari non sono una scusa per non dare un contributo importante agli studenti, anche se sicuramente sarà un inizio difficile”.

Un altro discusso problema è la dimensione della classe (class size): ridurre il numero di alunni porta davvero benefici? Molte ricerche mettono in rilievo gli scarsi vantaggi a fronte dell’aumento dei costi.  Certamente, sostiene ancora Hattie,  i dirigenti scolastici vedono la diminuzione di alunni per classe come un'opportunità, in quanto si hanno maggiori risorse in ore di docenza, allo stesso tempo  gli insegnanti sostengono che è meno stressante e più efficace trattare con meno studenti. Ma un Istituto prestigioso come la Campbell Organization, utilizzando molteplici studi, conferma l’assunto: “Small class size has at best a small effect on academic achievement, and may harm some students”. Tradotto: “una classe di piccole dimensioni al più ha un piccolo effetto sugli apprendimenti, ma potrebbe essere dannosa per alcuni studenti” (https://tinyurl.com/m55w8pub). Insomma utilizzare gli stessi vecchi metodi per meno alunni non fa certamente la differenza.

C’è però anche la dimensione della scuola intesa questa come livello di base (quello che chiamiamo plesso, indirizzo di studi nelle superiori o sede staccata in altri contesti).  Qui le cose si mettono in modo diametralmente opposto. Nella classe la dimensione grande non fa la differenza, mentre nella scuola sì.  Lo Small Schools Movement (https://tinyurl.com/yt35rfdk) - come abbiamo notato anche nel libro A scuola Senza Zaino - in alcune aree degli Stati Uniti ha portato alla riconfigurazione del sistema scolastico trasformando le scuole grandi in piccole (non più di 200 - 300 alunni), ritenute più efficaci in termini di apprendimento per gli studenti, di possibilità di sviluppo della collaborazione tra gli insegnanti, di riduzione dei problemi legati al comportamento, di efficacia nell’affrontare le situazioni di disagio e disabilità. Il testo di riferimento di Deborah Meier - promotrice del movimento - è nutrito di evidenze scientifiche,  mette in luce che le Small School: 

  • hanno maggiore percentuale di studenti che riescono a conseguire il diploma;
  • anche in situazioni di svantaggio socio-economico fanno sì che  i risultati degli studenti siano migliori rispetto a coloro che frequentano scuole più grandi;
  • migliorano i risultati negli apprendimenti della lingua e della matematica se raffrontati con studenti di scuole grandi;
  • fanno diminuire il gap negli apprendimenti tra studenti di famiglie agiate rispetto a quelli provenienti da famiglie meno abbienti o svantaggiate.

Considerando sempre gli aspetti quantitativi, un’altra questione all’ordine del giorno riguarda se è efficace allungare il tempo scolastico, ovvero la giornata nella settimana o i giorni nell’anno.  Secondo Hattie anche questa misura non ha un reale impatto in termini di qualità degli apprendimenti. I risultati dell'indagine  PISA 2012 rivelano in tutti i Paesi OCSE una correlazione negativa tra l’aumento delle ore e i risultati (- 0,32 a livello di media) e per ogni materia di studio (lettura - 0.25, matematica - 0.35,  scienze - 0,33). Anche considerando i tre Paesi con il punteggio più basso, il rapporto si avvicina a zero,  rendendo chiaro che semplicemente aggiungendo più tempo al giorno, o giorni all'anno, si incide poco. In Italia le ore obbligatorie annue di scuola sono, in media, 891 per le primarie, la media dei 22 Paesi Ue dell’Ocse è di 775 ore, mentre sono 990 nelle secondarie inferiori a fronte di una media dei 22 Paesi di 894 ore.  Inoltre l’Italia - con 200 giorni di lezioni per le scuole elementari, medie e superiori - è il Paese col maggior numero di giorni di scuola in Europa alla pari con la Danimarca (dati di Euridyce sintetizzati anche in https://tinyurl.com/8rwwctnk).  La cosa è notata anche da Stefano Stefanel, autorevole dirigente scolastico, che nel suo recente libro ricorda questa situazione scrivendo:  “Detto in soldoni:  tanta scuola. Modesti risultati”. E continua impietosamente: “Il problema non è che facciamo poco, ma facciamo troppo e male”.

Rimanendo dentro questi contorni quantitativi è ora chiara la pochezza del luogo comune che recita così: più soldi uguale miglioramento. Nella maggior parte dei paesi occidentali è difficile trovare prove che più risorse facciano la differenza: al di sopra di un certo livello di finanziamento, c'è poco rapporto tra risorse finanziarie e migliori risultati.  Andreas Schleicher ha chiarito che se investiamo in più adulti (docenti) non addestrati, classi meno numerose e molte altre caratteristiche strutturali, i costi aumenteranno sensibilmente senza alcun effetto significativo sul rendimento degli studenti. La domanda è: “Come spendere i soldi in modo efficace?”  Questa dovrebbe essere infatti  una questione chiave.

La deriva quantitativa coinvolge anche il curricolo.  Intanto abbiamo una discrasia tra la scuola che intende il curricolo costituito da obiettivi e materie di studio e il mondo del lavoro che ragiona in termini di  curriculum vitae.  Qui si preferisce la dimensione  verticale, un racconto, là una orizzontale cioè solo una fotografia fatta da voti.  Si pensi poi che nella secondaria di 1° le Indicazioni Nazionali prevedono addirittura 217 obiettivi: dunque una pesantezza a fronte della necessità di essere essenziali.  Essenzialità richiamata anche da Stefanel, il quale sottolinea l’urgenza di trovare un equilibrio tra conoscenze e competenze o, per stare ad Hattie, tra conoscenze superficiali (fatti, eventi) e conoscenze profonde (concetti, applicazioni di ragionamenti). Il problema è che ancora oggi vengono poco considerate le 8 competenze europee, o le 4C riguardanti creatività, collaborazione, comunicazione, spirito critico (https://www.battelleforkids.org/).  Ma abbiamo anche la dimensione verticale, oggi più che mai importante.  Personalmente suggerisco di prendere in considerazione l’approccio Big History (https://www.bighistoryproject.com) e/o la visione cosmica di Maria Montessori.  Tale prospettiva implica passare, come bene argomenta ancora Stefanel, da una scuola dei voti (superficiale) ad una dei crediti (profonda), in grado di valorizzare la crescita e la biografia personale dello studente, aiutandolo a costruirsi una mappa (portfolio) in continua evoluzione.




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